09 - 06 - 1994

Perchè non le riapriamo?

Ma riaprire, cosa?

Come cosa, quelle case.

Già, quelle case. Proprio adesso che non abbiamo più in uso un termine o una metafora o anche una parolaccia, tanto che la stessa parola “casino” oggi non serve ad altro che ad indicare confusione o scompiglio o baccano c’è chi ha fatto la pensata. E non si tratta di qualche facinoroso erotomane, ma di quieti benpensanti che con la compiaciuta malinconia di chi ricorda il tempo andato glorifica quelle istituzioni quasi si trattasse dei luoghi della beatitudine e della tranquillità, luoghi accoglienti, caldi, sereni, magari anche allegri.

Nate assieme all’unità d’Italia in omaggio al modernismo europeo e per opera o per errore del Conte di Cavour (regolamento Cavour 1860), in nome di una igiene che si identificava con l’azione repressiva e autoritaria della polizia detta appunto sanitaria, “quelle case” dovevano morigerare i costumi combattendo il vizio della prostituzione e salvaguardare dalle malattie veneree in vista di una nuova Italia sana robusta e virile.

In realtà di nuovo ci fu l’azione vessatoria e ghettizzante condotta contro le prostitute, private del passaporto e incarcerate nelle “case” (qualcuno pretendeva anche che indossassero una divisa), e il nascere di un dibattito fra regolamentisti e abolizionisti che durerà quasi cent’anni, mentre “vizio” e malattie veneree continuarono per la loro strada di sempre.

Tuttavia chi sostiene di riaprire le case, dette anche chiuse a memoria della loro funzione carceraria, è così benpensante che non può essere sospettato di voler rinnovare la schiavitù, anzi alcuni affermano che così facendo si limiterà il fenomeno prostituzione dimenticando che esso si protrarrà fino a quando la donna sarà proprietà dell’uomo. Coloro poi che poco si curano di contenere il “vizio”e molto si preoccupano di prevenire le malattie, in maniera che noi uomini si possa giocare senza timore di sporcarsi, sarà bene che si chiariscano le idee, evitino di far confusione o, come si dice oggi, di far casino.

Le case di tolleranza non risolsero il problema del contagio venereo e tanto meno potrebbero farlo oggi dovendosi confrontare con malattie come l’AIDS che ha tempi di incubazione e di silenzio immunitario lunghi se non ignoti. Non solo, ma abbiamo imparato che la prevenzione non si fa costruendo lazzaretti; che i comportamenti discriminatori non favoriscono lo sprigionarsi di tutte le possibilità e le energie rivolte a prevenire, controllare, curare la malattia e l’ammalato.

Penalizzare gli ammalati, i portatori o i soli sospetti come soggetti devianti, socialmente pericolosi, malfamati, significa favorire la indifferenza e la rimozione, la ignoranza e l’irresponsabilità, quindi la diffusione del contagio.

E’ dunque alle conoscenze e responsabilità personali che dobbiamo affidare la prevenzione e non ad uno stato assistenzialista che calpesta la dignità umana pur di garantire ad una parte dei suoi membri, quelli “virili”, la serenità e la pace dei sensi.

Comunque invitiamo i neoregolamentisti a documentarsi e se proprio insistono, trovino almeno un nome: bordello, postribolo, lupanare… suggerisco di leggere Mandeville (Modest Defence of Publick Stews,1724) e, perché no, chiamarle come fece l’ignoto nostro traduttore: Pubbliche case di piacere.

Maggio/Giugno 1994 –Anno II – n° 3

In “Frammenti di Sesso” CIC, 2005