14 - 09 - 2016

di Nunzia Melchiorre. Fonte: Jean Bottero: Divination et rationalitè 

La Mesopotamia è tra i primi paesi ad avere utilizzato la scrittura mediante la quale ci ha lasciato, fra il 3000 a.C. e gli inizi della nostra era, una mole di testimonianze, circa mezzo milione di tavolette che riguardano vari campi: dai conti di bottega fino alle creazioni dell’immaginario. Ed è proprio in mezzo a questo mucchio di fonti che i ricercatori assiriologi hanno ritrovato quanto basta per farci un’idea della vita sessuale e dell’amore presso gli antichissimi abitanti di un paese in cui è nata la prima grande civiltà veramente degna di questo nome, tra il IV e il III millennio circa.

Dunque, i Mesopotamici ignoravano molti dei nostri “tabù” relativi al sesso e alle sue pratiche, ma, a differenza dell’uomo contemporaneo, essi non amavano dissertare su questa materia e mettere per iscritto i loro problemi, le loro capacità o prodezze che fossero. Erano delle cose troppo naturali per perderci del tempo a dissertarci sopra. Erano piuttosto pudici dei loro sentimenti più intimi. E non si trova alcun riferimento letterario a dichiarazioni d’amore, a forme di effusione o di tenerezza. Raramente emergono altri tipi di trasporto affettivo. Così, ad esempio, come nelle lettera in cui la regina di Mari, verso il 1780 a. C. augura allo sposo in viaggio di tornare quanto prima a casa “tranquillo e soddisfatto” e lo invita ad indossare gli indumenti di lana che ella stessa gli aveva preparato e inviato insieme alla lettera. Oppure in quel messaggio disperato con il quale, nello stesso periodo, una giovane moglie informa il marito della morte, al settimo mese di gravidanza, del bambino che portava nel grembo, e della sua stessa paura di morire, di malattia o di dolore, abbandonata da tutti, lontana da lui, che spera di rivedere al più presto. Se non possiamo, allora, scoprire nel loro patrimonio letterario, le testimonianze delle gioie, ma anche dei drammi personali che l’Amore sentimento, passione, o semplice divertimento può avere provocato, tuttavia è possibile intravvedere come quei nostri antenati lo concepivano, come lo praticavano, e i piaceri e le paure che esso poteva procurare nel corso della vita. In Mesopotamia, così come da noi, fino a qualche decennio fa, le capacità e gli stimoli dell’amore erano stati incanalati, per tradizione, dalla coercizione collettiva verso un duplice obiettivo: – rendere stabile quella che era ritenuta la cellula base del corpo sociale, cioè la famiglia e, provvedere, per questa via ad assicurare la continuità. La vocazione innata di ogni uomo e di ogni donna, il suo “destino”, insomma, come si diceva, attribuendo le cose alla volontà degli dei, era, dunque, il matrimonio, per cui si ritenevano emarginati, e votati ad una vita triste ed infelice tutti quanti quelli che lo rifiutavano

«… il giovane rimasto solo … che non aveva preso moglie, né cresciuto figli, e la ragazza che non era stata deflorata né ingravidata, a cui nessun marito aveva aperto il fermaglio dell’abito e scostato la veste per stringerla a sé e farle gustare il piacere sino a che i suoi seni non si fossero gonfiati di latte ed essa non fosse diventata madre …».

Il matrimonio, monogamico normalmente, veniva stabilito dai genitori sin da quando i figli erano piccoli, a volte addirittura prima della loro nascita. Vocazione e unione matrimoniale erano “asserviti” alla costituzione della famiglia, alla procreazione e all’educazione dei figli e alla sopravvivenza della comunità. Ma non poteva essere tale istituzione ad esaurire tutte le possibilità dell’amore. All’uomo era data la facoltà di portarsi in casa una o più “seconde spose”. Ma vi erano anche molti incidenti di percorso: uomini che in strada si gettano sulle donne per sedurle o violentarle, o che vanno a letto, in segreto, con donne sposate o nubili … così come si trovano donne che corrono la cavallina e che vengono definite di “facili costumi” altre che ingannano i mariti, sfacciatamente o di nascosto grazie ad amiche compiacenti e ruffiane; altre che abbandonano la famiglia e si dedicano alla prostituzione; altre infine che si liberano del marito denunciandolo per colpe assurde e inventate di sana pianta, o facendolo uccidere o uccidendolo con le proprie mani. Queste colpe, se scoperte, erano severamente punite. Nemmeno gli dei sfuggivano a questo genere di disavventure.

In un mito sumerico, il dio Eufil spia la giovane dea Niulil, le si getta addosso, la violenta e la ingravida, con il risultato che gli altri dei indignati, per la sua condotta, lo mettono al bando.

In un altro mito sumerico Inanna, la figlio del dio An, si fa violentare dal giardiniere del padre, mentre nel mito accadiano, è lei ad incitarlo sfrontatamente e di fronte alla resistenza dell’uomo, lo trasforma in ranocchio.

Ma nella celebre Epopea di Gilgamesh, in lingua accadiana, la dea si offre, allo stesso modo, senza pudore, all’eroe tornato vittorioso dalla spedizione della Foresta dei Cedri; ma Gilgamesh che non ci sta a cadere nelle grinfie della sfrontata dea, le rinfaccia l’elenco di tutti gli uomini con cui è stata e che ha sempre abbandonato e maltrattati dopo averli amati.

Possiamo capire, a questo punto, come accanto all’amore “asservitivo” ai bisogni della società, abbia trovato spazio il cosiddetto amore “libero” praticato per la ricerca di un piacere personale. Questo tipo di amore era “assicurato” da “specialisti” che oggi chiamiamo prostituti. E visti i gusti e la concezione di quell’epoca e di quella regione, secondo cui l’amore non era necessariamente di tipo eterosessuale, questi “specialisti” dell’amore “libero” erano prostituti dell’uno e dell’altro sesso.

Senza dubbio erano numerosi e si raccoglievano soprattutto intorno ad alcuni templi. La loro funzione era pure permeata di religiosità. Avevano anche una patrona: la dea Inanna in sumerico e Ishtan in accadiano, la prostituta sovrannaturale.

Erano considerati degli emarginati, relegati nella zona delle mura che circondavano la città e non avevano alcuna protezione contro i maltrattamenti, gli scherni che subivano.

Secondo un mito sumerico era gente “fallita nel suo destino” specifico: per le donne, avere un marito e dargli dei figli; per gli uomini avere in amore un ruolo virile.

Nonostante ciò l’amore “libero”, essendo un’attività umana, era tenuto in alta considerazione poiché facente parte della cultura raffinata.

Un altro mito sumerico ci racconta di Enkidu, il futuro amico e compagno di Gilgamesh. Enkidu era nato e cresciuto nella steppa, con le belve per sole amiche. Egli è un bruto possente e scopre il vero amore, non più bestiale, con una vera donna, esperta e lasciva, una prostituta che gli era stata mandata per ammansirlo. Lei lasciò cadere la sua fascia e scoprì la vulva, perché lui potesse goderne. Sfacciatamente, lo baciò sulla bocca e lo privò dei suoi indumenti. E quando lui le si distese sopra, a quel selvaggio lei mostrò quel che può fare una vera donna, mentre lui la riempiva di carezze. Dopo sei giorni e sette notti di amplesso, Enkidu si ritrova completamente soggiogato da quell’incantatrice e pronto ormai a seguirla ovunque. Lei lo porta in città. Lui “diventa uomo”, un uomo colto e civile. È l’amore “libero” che, dalla natura lo ha introdotto nella cultura. Fare l’amore era un’attività naturale, resa nobile dalla cultura tanto quando il mangiare era esaltato dall’arte culinaria.

Sappiamo che c’erano preghiere ed esercizi di devozione per favorire l’amore di un uomo verso una donna e viceversa, ma anche di un uomo verso un altro uomo e di una donna verso un’altra donna. Ma c’erano anche preghiere per sedurre una donna o un uomo; per favorire la congiunzione di un uomo con una donna … e così via.

Ecco una preghiera “per ottenere che una donna giunga a desiderare un uomo”: «La più bella tra le donne ha inventato l’Amore! Ishtar, che si delizia con mele e melagrane (frutti ritenuti afrodisiaci) ha creato il Desiderio. Va su e giù, pietra d’amore (termine erotico che si riferisce al membro in erezione) entra in azione per il mio diletto! È Ishtar che deve presiedere al nostro accoppiamento!» La preghiera andava recitata per tre volte di fronte ad una mela o ad una melagrana, da far mangiare poi dalla donna desiderata, che si sarebbe, poi, lasciata andare e si sarebbe potuto amarla